Lettera dell’arcivescovo per la Pasqua 2020 in tempo di pandemia
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Carissimi fratelli e sorelle,
la pandemia che sta sconvolgendo il nostro Paese e il mondo è entrata all’improvviso con i suoi effetti anche nelle nostre vite e ci ha costretto a mettere da parte comportamenti consolidati e a dare forma nuova alle nostre giornate. Tutto è stato travolto, dalle cose più banali, come non poter fare una passeggiata o andare a mangiare una pizza con gli amici, fino a quelle più sostanziali, come non poter più abbracciare i nostri cari, visitare gli anziani o dare un aiuto di persona a un povero. Ne è stata toccata anche la vita spirituale di noi cristiani, privata delle celebrazioni dell’assemblea del popolo di Dio con i suoi pastori. Questi hanno continuato a celebrare in questi giorni, ma senza la presenza viva dei fedeli attorno a loro, sebbene la fede ci dica che ogni Messa è celebrazione della Chiesa e ha un valore universale, sempre e comunque.
E ora giunge la Pasqua. Ho pensato che come vescovo non potevo non dire una parola di orientamento e di conforto al mio popolo. Lo faccio con la consapevolezza che il legame tra noi non è stato compromesso dalla lontananza che ci è stata imposta e che ho cercato di supplire con riflessioni sulla parola di Dio e con preghiere di affidamento al Signore e alla sua e nostra Madre, trasmesse con i moderni mezzi di comunicazione. Soprattutto la mia vicinanza vi è assicurata dai miei e vostri preti. che continuano ad essere presenti alle comunità, anch’essi con modalità nuove. Ma, ormai verso la Pasqua, sento che devo dirvi una parola specifica, anzi un po’ di parole, che ho provveduto a dividere per argomento, così che si possano leggere anche in momenti diversi.
1. Come vivere la Settimana Santa
Comincio da una domanda che mi viene posta spesso in questi giorni: come potremo vivere la Settimana Santa mentre continua ad esserci impedito di vivere le celebrazioni liturgiche insieme? Sappiamo che questo sacrificio lo stiamo facendo per responsabilità sociale, anzi come un atto di carità verso i nostri fratelli più fragili, che verrebbero travolti dall’ulteriore diffusione del virus, come pure verso coloro che se ne prendono cura, nella sanità e nel volontariato, a cui non possiamo chiedere di caricarsi di ulteriore fatica in un impegno giornaliero già molto gravoso. La nostra rinuncia è un atto di carità: non lo dimentichiamo! È esprimere nella vita quella carità che è il cuore e il frutto dei sacramenti.
Ecco, allora, una riflessione sul significato della Settimana Santa, a cui dobbiamo volgere il nostro sguardo e che dobbiamo tenere vivo nel nostro cuore, al di là dei modi in cui potremo viverla.
La Settimana Santa, e in essa in particolare il Triduo pasquale, costituisce la sorgente da cui scaturisce tutta la vita liturgica della Chiesa e quindi la trasmissione della grazia, dell’amore di Dio per gli uomini attraverso i segni che Cristo ha affidato ai suoi discepoli. Gli eventi di cui si fa memoria in questi giorni costituiscono il contenuto di ogni celebrazione domenicale. Così abbiamo ascoltato dall’“Annuncio del giorno della Pasqua”, nella solennità dell’Epifania: «Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto, che culminerà nella domenica di Pasqua. In ogni domenica, Pasqua della settimana, la santa Chiesa rende presente questo grande evento nel quale Cristo ha vinto il peccato e la morte».
A introdurre il Triduo è la Domenica delle Palme e della Passione, in cui in un solo rito vengono eccezionalmente proclamate due pagine del vangelo, che segnano il cammino di Gesù dall’ingresso trionfale in Gerusalemme, alla sua uscita dalla città per essere crocifisso sul Golgota. Il Messia, acclamato dalle folle, svela il suo volto di Salvatore degli uomini non nel rivendicare un potere umano, ma nell’offrirsi alle sofferenze della Passione, fino a sfidare la morte come prova suprema del suo amore. L’attualità di questo messaggio è nel sentirsi chiamati anche noi a condividere con Gesù l’offerta di sé per i fratelli, pronti a rinunciare a tutto, fino alla vita, anche noi per amore, solo per amore.
Il Triduo prende poi avvio nella sera di Giovedì Santo, con la memoria della Cena di Gesù con i discepoli, segnata anzitutto dalla lavanda dei piedi – che quest’anno non potremo rievocare come gesto, ma che, proprio per questo, ci interroga ancor più profondamente nel suo significato di umile servizio, che sconvolge tutte le gerarchie umane: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi…» (Gv 13,14). La cena, poi, trova il suo culmine nel segno reale della presenza e del dono di sé che Gesù affida per sempre a un po’ di pane e di vino, che diventano la permanenza sostanziale di lui, il Signore, con noi e in noi per sempre: egli non è semplicemente un compagno di viaggio, ma una presenza dentro di noi che, accolta, diventa fonte di vita nuova in noi, una vita come la sua. Un dono e un impegno. Lo spiega Gesù stesso nei discorsi che fanno seguito a quella cena, affidandoci il comandamento nuovo – «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12) – e affidando noi al Padre, per renderci capaci di testimoniare il suo Vangelo nel mondo – «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. […] Consacrali nella verità» (Gv 17,15.17) – e perché siamo in grado di essere un riflesso di Dio e del suo amore – «Tutti siano una sola cosa, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21) –; tutto fondato non sulle nostre risorse, ma sull’amore di Gesù per noi. Ce n’è per motivare una rinnovata attenzione verso tutti, in particolare per chi in questa situazione di pandemia rischia di rimanere travolto dalla crisi economica, andando ad allargare le fila di coloro a cui manca il necessario. La loro presenza non può mancare alla tavola eucaristica del nostro impegno di carità.
Nel Venerdì Santo, la proclamazione della Passione ci pone davanti al mistero della sofferenza del Crocifisso, invitando a cogliere in profondità l’umiliazione a cui Cristo soggiace nel suo misurarsi con il peccato del mondo per redimere l’umanità:
«[Cristo Gesù] pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). La memoria della Passione è accompagnata da una preghiera universale, in cui si raccolgono tutte le attese della Chiesa e del mondo e che termina con l’invocazione “per i tribolati”, quest’anno introdotta così: «Preghiamo, fratelli carissimi, Dio Padre onnipotente, perché liberi il mondo dalle sofferenze del tempo presente: allontani la pandemia, scacci la fame, doni la pace, estingua l’odio e la violenza, conceda salute agli ammalati, forza e sostegno agli operatori sanitari, speranza e conforto alle famiglie, salvezza eterna a coloro che sono morti». Al volto sofferente di Cristo devono unirsi nel nostro cuore i volti dei “poveri cristi” che soffrono nella malattia e di quanti, come la Veronica, si chinano con compassione su chi soffre e si spendono nel prendersi cura dei malati e dei poveri. La visione della violenza che si abbatte su Gesù deve risvegliare le nostre coscienze anche a non dimenticare le vittime delle ingiustizie e delle violenze che si consumano nel mondo. Infine, la liturgia invita ad adorare la Croce, riconoscendo in essa non solo uno strumento di morte, ma anche e soprattutto lo strumento della nostra salvezza, la chiave della porta dell’eternità, la misura del supremo atto d’amore del Signore per noi.
Nel Sabato Santo, il silenzio circonda il Crocifisso sepolto, tolto ai nostri occhi, ma non all’attesa del nostro cuore, per il quale il sepolcro non indica un’assenza ma una nostalgia. C’è qualcosa che avvicina il silenzio del Sabato Santo a questi giorni, anche se si tratta di un silenzio diverso: sono giorni vuoti di ciò che era solito occupare ieri il nostro tempo, spesso ahimè sciupato in cose di poco conto e schiavo di falsi bisogni e di esperienze alienanti; giorni a cui fatichiamo a dare un senso, ma che, se vissuti oltre l’apparenza, possono aiutarci a discernere tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, tra gli affetti veri e i legami superficiali, tra servire i fratelli e servirsene o lasciarsi asservire, tra aprire il nostro sguardo oltre le cose visibili e rimanere schiavi del qui e ora; giorni in cui, soprattutto, possiamo riscoprire il desiderio di una pienezza che solo l’infinito ci può dare. L’attesa del Sabato Santo sia per noi l’attesa di Dio, della sua presenza nella nostra vita, di lui come l’unica luce che la può illuminare.
È la luce che sfolgora nella Veglia pasquale, nel cero, segno di Gesù, luce nelle tenebre dell’umanità, come canta l’“Exsultet”: «Questa è, la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro». Questa è la Pasqua: nella morte e risurrezione di Cristo ci è dato il potere di sconfiggere il peccato e la morte, vale a dire di contribuire a edificare questo mondo secondo il progetto di Dio e, insieme, di proiettare la nostra vita oltre il tempo, nell’eternità; tutto questo perché siamo resi partecipi dell’amore stesso del Padre. Questo è il dono che ci è stato consegnato nel Battesimo, di cui nella Veglia pasquale si fa memoria con il rinnovo delle promesse battesimali. Mistero pasquale e sacramento del Battesimo devono poi diventare vita, nella testimonianza concreta della gioia dell’incontro con l’amore del Padre, della comunione fraterna che scaturisce dalla medesima figliolanza divina, della forza che l’amore accolto ci dona per farci costruttori di vita nel mondo. A nutrire la gioia deve essere una fede coraggiosa; ad alimentare la comunione ci vuole una carità senza riserve; a sostenere l’impegno per porre i semi del regno di Dio nella storia avremo bisogno di una salda speranza.
Se avremo vissuto con questi sentimenti il Triduo pasquale potremo attendere che anche per noi si realizzi quanto la liturgia della Domenica di Pasqua fa chiedere al Padre: «O Padre, che in questo giorno, per mezzo del tuo unico Figlio, hai vinto la morte e ci hai aperto il passaggio alla vita eterna, concedi a noi, che celebriamo la Pasqua di risurrezione, di essere rinnovati nel tuo Spirito, per rinascere nella luce del Signore risorto».
Ho voluto condividere con voi questi pensieri, offerti come un itinerario per questi giorni. Non potendo compiere i gesti esteriori della partecipazione ai riti, non manchi questa partecipazione della mente e del cuore, per tenerci uniti a quanto il Padre ha fatto per noi nel suo Figlio e a vivere la comunione tra noi in un legame spirituale che la separazione fisica non deve distruggere, ma piuttosto rafforzare, in vista di quando potremo e dovremo dare più profondo significato, più viva partecipazione e più concreta proiezione nella vita alle celebrazioni assembleari che riprenderemo non appena ce ne verrà data la possibilità.
Esorto i preti a celebrare in questi giorni con la stessa dedizione con cui avrebbero celebrato con il loro popolo, che se non potranno avere nelle loro chiese avrà senz’altro spazio nel loro cuore, sapendo che esso è misticamente presente nel mistero celebrato in quanto atto ecclesiale e mai privato. Esorto i diaconi e quanti sono chiamati a servire all’altare a svolgere il loro servizio con dedizione, perché il rito mantenga la sua dignità: si celebra davanti al Signore, che ci siano o non ci siano i fedeli, che si sia in pochi o in tanti. Esorto i fedeli a unirsi spiritualmente alle celebrazioni, avvalendosi anche della possibilità di seguire quelle del Santo Padre, trasmesse dalle reti televisive, in particolare Tv2000, e poi quelle che, collocate appositamente in orari diversi, presiederò nella nostra Cattedrale, visibili nei siti della diocesi, di Toscana Oggi e di Radio Toscana. Agli stessi fedeli, in particolare alle famiglie, segnalo che la diocesi sta diffondendo sussidi per la preghiera in casa, legati a contenuti e gesti delle celebrazioni liturgiche, che vengono trasmessi ai parroci. Pregare in casa in questi giorni ci aiuterà a riscoprire la preghiera in famiglia, che non mancava mai un tempo nelle famiglie cristiane.
2. Al centro della nostra preghiera
E ora un pensiero che vuole abbracciare tutti coloro che vivono questi giorni di Pasqua in una inattesa sofferenza o in un difficile servizio.
Il pensiero e la preghiera sono anzitutto per i tanti morti di questi giorni, a cui non abbiamo potuto assicurare i gesti usuali della liturgia cristiana, ma che nessuno deve pensare che siano lontani dalla preghiera della Chiesa, oggi nella preghiera silenziosa e quando ce ne verrà data la possibilità nelle forme proprie della preghiera della comunità. Ci sentano vicini nella condivisione del dolore le loro famiglie, che spesso sono state separate dai loro cari nella fase più acuta della malattia e negli istanti della morte. Le sorregga la certezza che c’è una comunione dei cuori che la lontananza fisica non spegne.
Il nostro pensiero raggiunge tutti i malati, soprattutto quelli a cui, nelle terapie intensive, sono sottratti i consueti contatti con le persone care, pur non mancando loro l’attenzione umana di tanti medici e infermieri. Anche la cura pastorale verso di loro da parte dei nostri cappellani ospedalieri è sottoposta a limiti; quando non è possibile raggiungerli accanto al letto, siano certi che essi non mancano però di vegliare e pregare oltre le porte e i vetri che proteggono le azioni di cura sanitaria. A tutti i malati vogliamo dire che preghiamo con loro e per loro, così come in questi giorni più volte ha fatto e ci ha esortato a fare Papa Francesco. Sono loro ora al centro del cuore della Chiesa.
Attorno a loro si muovono con professionalità e dedizione medici, infermieri e personale ausiliario della nostra sanità e del volontariato. Il loro è un servizio di cura indispensabile e pieno di pericoli per le loro stesse persone. Verso di loro si rivolge la nostra considerazione e la nostra gratitudine, insieme alla preghiera al Signore perché siano sostenuti nella loro fatica.
Gratitudine e preghiera vogliamo riservare anche a chi governa e amministra il nostro Paese, le nostre regioni e città. Le decisioni che devono assumere, spesso pesanti per i cittadini, accompagnate da conseguenze non facilmente decifrabili sulle persone e sul futuro, anche economico, della nazione, siano sempre illuminate dai principi che fondano il vivere civile: equità e attenzione privilegiata ai più poveri, solidarietà e sussidiarietà, ricerca del bene comune.
Pensiero e preghiera abbracciano anche tutti coloro che si trovano a vivere negli spazi ristretti come previsto dalle norme emanate per evitare la diffusione del contagio. Le nostre famiglie, anzitutto, e in particolare i bambini e i ragazzi, a cui è negata la possibilità del gioco e trovano ostacoli nei normali percorsi scolastici. Vicini al nostro cuore sono anche gli anziani e i disabili ospiti delle residenze sanitarie o di altre realtà di accoglienza e di cura, costretti a un isolamento che rischia di far sentire lontani i loro cari, alcuni aggrediti dal virus che si accanisce particolarmente su chi ha già altre patologie, senza dimenticare chi li assiste, uomini e donne chiamati a un impegno ogni giorno più faticoso. Al nostro pensiero e al nostro cuore sono inoltre ben presenti i detenuti, già ristretti per la natura della loro pena e per le condizioni spesso disumane delle carceri e ora particolarmente minacciati da un virus che, qualora entrasse nelle celle, sarebbe una inesorabile minaccia alla loro vita e il presupposto di una rovina dell’intero sistema. Per loro, oltre che vicinanza e preghiera, si chiede a chi ha l’autorità provvedimenti che possano almeno ridurre le condizioni di sovraffollamento.
3. Una prospettiva per il presente, ma guardando al futuro come a un dono
A chiudere questa lettera un pensiero che vuole al tempo stesso fare discernimento sul presente e orientarci già verso il futuro. Eravamo così sicuri di noi stessi, del modello di uomo e civiltà che andavamo costruendo, che abbiamo pensato fino ad oggi di essere invulnerabili, così forti nella nostra volontà di potenza, nel pensare di poter tradurre ogni desiderio in un diritto, di poter estendere i confini del nostro dominio.
Ma la presunzione di garantirci ed essere garantiti, si è scontrata in questi giorni con un’acuta esperienza di fragilità e precarietà. E aver scoperto che non tutto ci può essere garantito, tanto meno la vita, può essere vissuto precipitando nella disperazione, oppure scoprendo che se nulla mi è dovuto, allora tutto quello che ho è un dono.
È un dono anzitutto che stiamo a questo mondo, che la nostra vita si sia accesa nel tempo per incamminarsi verso l’eterno. È un dono ogni giorno che si apre davanti a noi come uno spazio di possibilità da riempire con responsabilità. È un dono il tessuto comune di umanità che tutti ci unisce e ci impedisce di vagare nella vita senza riferimenti. Proprio la percezione che tutto questo è così fragile, come si sperimenta in questo tempo, in cui i più sfortunati vedono messa a rischio la vita e tutti siamo costretti a modificarne radicalmente le forme, a causa delle doverose rinunce a cui dobbiamo sottostare per il bene nostro e di tutti, ci dovrebbe far capire che nulla è scontato e che tutto è un dono: lo è la vita, lo è un cielo luminoso, l’abbraccio di un genitore, l’affetto tra due sposi, la possibilità di conoscere cose nuove, il sostegno che ci viene da un fratello e quello che noi offriamo a lui, per chi crede la presenza di un Dio che è amore. Tutto è dono.
E il dono di questi tempi difficili deve essere cambiare i nostri occhi e il nostro cuore e, a cominciare da oggi per continuare dopo, a vivere con negli occhi lo stupore e nel cuore la gratitudine. Ma la consapevolezza di vivere nel dono deva anche far maturare la responsabilità di farci dono agli altri. Sarà questo un compito assai impegnativo per il futuro che ci attende, in cui la crisi economica coinvolgerà imprese e persone, con inevitabili conseguenze di tenuta familiare e sociale, anche di equilibrio psicologico e spirituale. Uno scenario in cui ci si dovrà inventare forme nuove di carità ma anche, più al fondo, sarà necessario superare l’attuale modello economico dominante per ripensare il mondo della produzione e del lavoro, quello degli scambi commerciali, come pure quello della finanza in senso più solidale.
Operare in noi e tra noi questa rivoluzione dello sguardo e delle opere trasformerà questi giorni tristi in un tempo di grazia. Ne potrà scaturire una vita nuova, un mondo rinnovato. È la Pasqua del Signore. La presenza di Dio tra noi è seme di un mondo nuovo a cui non può mancare la nostra presenza.
Queste parole del poeta Thomas S. Eliot interpretano bene quanto ci attende:
«In luoghi abbandonati
Thomas E LIOT , La Rocca, Coro I
Noi costruiremo con mattoni nuovi
Vi sono mani e macchine
E argilla per nuovi mattoni
E calce per nuova calcina
Dove i mattoni sono caduti
Costruiremo con pietra nuova
Dove le travi sono marcite
Costruiremo con nuovo legname
Dove parole non sono pronunciate
Costruiremo con nuovo linguaggio
C’è un lavoro comune
Una Chiesa per tutti
E un impiego per ciascuno
Ognuno al suo lavoro».
Possiamo circi l’un l’altro che le voci degli operai del coro di Eliot devono essere oggi le nostre voci.
L’immagine di un mondo nuovo come di un cantiere dovrebbe esserci cara, a noi fiorentini, mentre facciamo memoria dei seicento anni dell’inizio della costruzione della cupola della nostra Santa Maria del Fiore. Dovremo osare il futuro con la stessa immaginazione e con lo stesso coraggio di Filippo Brunelleschi e dei suoi operai. Essi non ricostruirono, ma ebbero la ventura di dover osare ciò che nessuno aveva osato. Noi dovremo ricostruire, ma non dovrà mancarci lo stesso ardimento, un progetto di una casa nuova per l’uomo, da tenere nel cuore e in cui collaborare come in un cantiere.
Così un altro poeta, Mario Luzi, celebrava nel 2000 la nostra cattedrale; anche queste parole, che egli pose sulla bocca di Santa Maria del Fiore, illuminano la strada davanti a noi:
«Vorrei essere forte
Mario L UZI , Opus florentinum
di tutti i miei slanci e di tutti i miei peccati
di tutte le mie miserevoli omissioni
e delle mie tribolate penitenze
per accogliere con fede e con speranza
questo advena, questo sopravvenuto tempo.
Viene forse duro ed impietoso a chiedere ragione
del grande patrimonio che abbiamo dissipato, viene
forse smarrito a mendicare un po’ di quella povera sostanza.
Vorrei che fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia
su cui possa posare il piede
chi arriva
e prendere slancio per il volo.
Perché questo ci è chiesto,
figli miei, di crescere
nel tempo: questo ci giustifica»
Buona Pasqua dal vostro vescovo, vostro pastore, servo e padre,
Giuseppe
Firenze, 5 aprile 2020
Domenica delle Palme e della Passione